I believe everyone has two homelands; one is his own, the closest one; and the other one is Italy.

(Henryk Sienkiewicz, Nobel prize in Literature, 1905)

Io mi piace l’italiano

di Roberto Tartaglione

 

Se io volessi fare lo psicologo per gli operai di una fabbrica giapponese a Yokohama, credo proprio che studierei il giapponese. E se volessi fare il venditore porta a porta di enciclopedie a Trebisonda, molto probabilmente studierei il turco. Insomma la lingua la imparerei per necessità e non per teorico “obbligo”.

Naturalmente se facessi lo psicologo o il venditore di enciclopedie per conto terzi il mio datore di lavoro mi farebbe pure un test di lingua prima di assumermi, giusto per non rischiare di dover stipendiare uno che non saprebbe poi svolgere i propri compiti. Se invece lavorassi in proprio allora sarebbero fatti miei: potrei pure andare a vendere libri porta a porta a Trebisonda senza parlare turco, ma difficilmente riuscirei a venderne qualcuno e a sbarcare il lunario. O magari, visto che sono un fenomeno nella comunicazione gestuale, ne venderei moltissimi, chissà. Comunque affari miei.

Diverso è il caso di stranieri che “devono” fare un test linguistico per lavorare in Italia. Conosco un cinese che ha un bar a Roma, lo gestisce da anni e anche bene, una battuta strampalata per ogni cliente in un italo-romanesco-cinese assai improbabile, ma assolutamente comprensibile. Fatto è che se la cava egregiamente e il suo bar è sempre pieno. Ma il test d’italiano non l’ha superato. Gli togliamo il bar?

Lo stesso per una badante, semianalfabeta nella sua stessa lingua: sta da due o tre anni con un vecchietto, sa intrattenerlo, lo porta a spasso, gli fa fare vita sociale: il suo italiano non è particolarmente orribile. Il test però non lo ha superato: le hanno appioppato una serie di domande su “come ci si iscrive a una piscina in Italia” e lei, sorprendentemente, con i circoli sportivi della città non aveva molta confidenza. Che facciamo: le togliamo il vecchietto?

Ancora diverso il caso di un calciatore da 10 milioni di euro l’anno che per aggirare la legge che gli impedirebbe di far parte di una squadra italiana in quanto straniero, punta a prendere la cittadinanza. Gli esaminatori (pare, indagini della magistratura a parte) lo avrebbero favorito: non tanto per trarre un vantaggio economico o per corruzione (pare, indagini della magistratura a parte!) ma perché “Ti pare che non diamo il B1 a uno che deve venire qua a guadagnare 10 milioni l’anno?”.

 

Certo, dato che a rilasciare il certificato è un’istituzione pubblica, se c’è un’irregolarità chi l’ha compiuta è imperdonabile. Ma da qui a trascurare che il cortocircuito sta nel fatto che ci si inventino cittadinanze rapide perché stiamo parlando di calcio, ne passa di differenza!

L’istituzione è colpevole (pare, le indagini della magistratura valuteranno), ma la colpa principale sarebbe non tanto quella di aver dato un B1 invece di un A2, quanto quella di dimostrare di non credere a delle regole che probabilmente si è contribuito a stabilire e che si sono accettate.

Insomma, dipendesse da me, privato cittadino, io il certificato B1 al cinese del bar lo darei: “Ti pare che gli faccio perdere il bar perché il suo italiano è formalmente traballante?”. Ma il mio cinese non guadagna 10 milioni l’anno, io non sono una istituzione, non ho contribuito a creare certe regole, non ho mai dichiarato di ritenerle giuste e comunque non ho il potere di rilasciare certificati.

Il caso del calciatore Luis Suarez è su tutti i giornali, giustamente. In un paese che non dà la cittadinanza a ragazzi che hanno frequentato in Italia tutte le scuole dell’obbligo e a persone che sono culturalmente e praticamente italiane sotto tutti i punti di vista, la cosa è gravissima.

Ma siamo convinti sia giusto prendercela semplicemente con la valutazione delle competenze linguistiche e che il problema non sia, come si diceva negli anni Settanta, “a monte”?

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